UNA STORIA COME ALTRE

E’ una storia come tante altre; una storia di cui, forse ognuno di noi, arrivato all’estero, è stato protagonista nella vita. Una di quelle storie che hanno il sapore della emigrazione italiana.

“Ero arrivata in anticipo, di almeno un’ora. Aveva smesso di piovere ma dal colore del cielo si intuiva che era solo una tregua. Avevo guidato tenendo al minimo i giri del motore, come si fa quando non si ha troppa voglia di arrivare.

E, l’avevo fatto per entrare nel mio passato in punta di piedi.

Mi sono guardata intorno, all’entrata del paese, ritrovando le case che già conoscevo. Scoprendole cambiate, leggendo il passaggio del tempo come fosse il volto di qualcuno ritrovato dopo tanti anni. Ho osservato i passanti, cercando di ricordare se li conoscevo. Ho lasciato la macchina sulla strada principale, l’unica del paese. Quella dove si svolge la vita, per tre mesi all’anno. Da piccoli, qui, giocavamo a pallone. Oggi è il luogo preferito dai turisti di passaggio. Si fermano in salumeria a comprare la mozzarella affumicata, si siedono fuori a mangiare un panino su sedie di plastica. Di fronte, c’è la vecchia trattoria “Il cortiletto”, poco più avanti il vecchio Tony Bar, il posto dove quando ero piccola andavo a mangiare i panzerotti. Fritti, e non al forno.

Entro nel bar, c’è una donna che sta leggendo il giornale. Ha il grembiule bianco. L’arredamento del bar non è cambiato così tanto e l’effetto di essere tornato indietro nel tempo mi toglie un po’ il fiato. Questa è casa mia, ma non mi sono mai sentita così sospesa. Sospesa è la parola giusta, perché non trovo le parole per salutarla, per ricordarle chi sono, chi eravamo.

Mi guarda, e abbassa gli occhi.

“Buongiorno” dice la donna.

“Buongiorno” le dico. “Si può avere un caffè?”

Cerco di dirle qualcosa mentre verso una bustina di zucchero e giro il cucchiaino nella tazzina del caffè. Non trovo niente, solo un sospiro che diventa un sorriso a labbra strette, una richiesta di aiuto.

“Quanti anni sono passati”, mi chiede a bruciapelo.

“Credo quindici. Forse qualcosa di più, Marta”.

“Già, quindici anni. Mamma mia. Qui è cambiato tutto, hai visto? Ti ricordi quelle serate d’estate, che non sapevamo cosa fare, e passavamo la notte a chiacchierare e a fare quel gioco?”

“Mi ricordo benissimo. Dovevamo indovinare le canzoni che la passavano alla radio. Cinque stazioni a testa”.

“Già, cinque stazioni a testa. Le hit valevano un punto, più si andava indietro nel tempo, più i punti aumentavano”

“E Radio Maria non valeva” diciamo in contemporanea. Ridiamo. Poi ci vergogniamo.

E abbassiamo la testa, per pudore del tempo passato.

“Ma insomma, dove sei finita? Hai visto quanta gente passa da qui adesso?”

“Sei contenta?”

“Per gli affari è una bella cosa. Anche se io non sono la titolare. Per me è cambiato poco”

“Io sono venuta ad affittare casa mia”

“Ah, allora non torni?”

“No, non torno”.

Marta annuisce.

“Prendi il caffè, dai”.

Si volta dall’altra parte e sistema qualche bottiglia. Poi torna in cucina.

È ancora presto, ci sono un paio di famiglie in giro.

Quelle che vanno al mare quando il sole è ancora basso, per paura che i figli piccoli si ustionino o muoiano di fame a mezzogiorno.

“E perché vuoi affittare casa?” mi chiede Marta mentre prepara i panini.

Non le rispondo, mi limito ad una smorfia, vedendola tornare.

Un movimento della spalle che le fa capire che posso poco, di fronte alla distanza. Che i turisti sono una bella cosa, ma io quel sogno di aprire un bed & breakfast dalle parti nostre non ce l’ho mai avuto, né ho la capacità di gestirlo. Che non c’è posto nella mia vita per un piano B, e che non ho intenzione di tornare qui a 50 anni. Perché in fondo un ritorno non è mica un’impresa da niente.

Un gesto, ma Marta mi capisce al volo. Mi ha sempre capito, anche quando eravamo amiche. Poi io sono andata via e lei è rimasta qui. Non è successo nient’altro. Non ci siamo fatti del male. Nessun rancore, nessuno strascico, solo l’accettazione che le cose erano destinate ad andare così.

“Marta, ma io e te esattamente perché non ci siamo più sentite?” le chiedo a bruciapelo.

Lei solleva le spalle. Si toglie il grembiule e si alza le maniche della maglietta.

“Ti preparo un panino con la parmigiana? È buona, l’ho fatta stamattina”.

Mi chiedo cosa si possa obiettare ad un’amica che interrogata sulla fine della nostra amicizia, risponde offrendomi un panino con la parmigiana.

“Beh, sì.”

“Ti faccio anche un po’ di coppata. Te la metto a parte”.

“Ti trovo qui stasera?”

“Mi trovi sempre qui! Buona giornata, e fammi sapere com’è questa parmigiana”.

Fuori dal bar l’unica strada del paese inizia a popolarsi. È una mattina radiosa e c’è un sole meraviglioso. Io sono solo di passaggio e non ho intenzione di restare qui.

Bukowsky diceva “Non sono come gli altri. Morirei nei loro prati da picnic”. Io mi sento soltanto una che non ha più nulla a che fare con questo posto. Non ho fame, ma addento il panino che Marta mi ha preparato. Sa di un’estate di venti anni prima. Sa di mare, mi ricorda l’azzurro delle cabine sulle cui pareti ci pulivamo le mani sporche di sugo. Sa delle urla di mia madre quando mi minacciava di aspettare tre ore prima di fare il bagno. Sa del il mio primo amore. Penso che nel nuovo Paese dove mi sono trasferita, una parmigiana così te la sogni.

Faccio qualche passo indietro, rientro nel bar. Guardo Marta, la mia amica Marta, ancora una volta.

Poi esco. Adesso il sole è alto, e io non ho più la leggerezza dei miei vent’anni. Non potrò mai liberarmi del mio posto nel mondo. Del sapore della parmigiana e della strada in cui sono cresciuta.

Sospiro forte. E un vento fresco mi asciuga una lacrima. La prima che scende sul mio volto, dopo vent’anni. L’ultima che verso nella strada più bella del mondo. Quella in cui sono cresciuto.

a cura di Diletta Toneatti