Parla. Parla. Parla. Ininterrottamente. Non si ferma mai. Di giorno. La notte. Sempre. Ininterrottamente. Ieri notte sono riuscito a chiudere gli occhi e ad addormentarmi. Non so come. Improvvisamente vengo scosso dalle spalle. Apro gli occhi e il signor Corsaro è lì, alto e dinoccolato, in piedi, piegato verso di me. Le mani appoggiate alle mie spalle. Mi sta scuotendo lui. Appena apro gli occhi si ferma. Mi guarda fisso: “perché non mi autorizza a lasciare questo ospedale”.
Tra il disperato e il risentito continua a fissarmi aspettando una risposta.
Valuto le opzioni. Accarezzo l’idea di picchiarlo. Trattengo l’impulso di insultarlo. Ipotizzo di dargli una ditata nell’occhio. Scelgo di essere il capo di stato maggiore.
Sospirando e sibilando: “si rimetta a dormire oppure la deferisco alla corte marziale per ammutinamento”. Glielo dico con il tono più minaccioso che il sonno mi consente. “Guardi che non siamo per mare”, mi risponde prontamente.
L’ammutinamento. Cosa mi è venuto in mente… Devo replicare. E in fretta. Non deve prendere il sopravvento. Invece, un istante dopo lascia le mie spalle e si corica. E comincia a parlare. Parlare. Parlare.
Sta passando il pomeriggio e non ha ancora smesso di parlare.
La flebo di immunoglobuline mi tiene inchiodato al letto. Parla. Non riesco a leggere. La sua voce monocorde continua a disturbarmi. Ogni tanto lo guardo mentre è lì, sdraiato nel letto, tutto solo nel suo pigiama azzurro, che parla al soffitto guardandolo come se dovesse rispondergli da un momento all’altro. Vorrei detestarlo. Invece provo una profonda tenerezza.
Parla. Parla. Si alza. Viene verso di me. E si accomoda sulla sedia ai piedi del mio letto. Composto. La schiena dritta. Le gambe accavallate. Parla. Improvvisamente si ferma. Mi fissa. “Ci risiamo”, penso. Invece mi sorprende.
“Lei lo conosce il Petrarca?”.
Lo guardo con sospetto. Mi chiedo dove sta cercando di portarmi. Dove sarà la trappola?
Azzardo: “si. Lei cosa ne pensa?”.
“Dunque, il Petrarca …”. Continua a sorprendermi. Si ferma. Tace. Si alza, l’espressione triste. Torna verso il suo letto. Si sdraia continuando a tacere. Stende le braccia lungo i fianchi. E mi sorprende ancora. Piange. Un pianto discreto, trattenuto, composto. E non parla. Continua a non parlare. Dopo un po’, forse un’ora, non si è ancora ripreso. Non piange più. Guarda il soffitto e non parla.
Dopo cena riprende a parlare. Ininterrottamente. Camminando avanti e indietro. Dalla porta alla finestra. Sto cercando di finire un libro. Parla. Parla. Ininterrottamente. Improvvisamente un lampo. Ci provo: “mi dica del Petrarca”. Mi sorride. “Dunque, il Petrarca …”. E si ferma. Tace. Si sdraia sul letto e piange. Discretamente. Smette poco dopo. Ma continuerà a tacere a lungo. Ho trovato la chiave per la mia serenità: Francesco Petrarca.
Quando non c’è la facevo più a sentirlo parlare, gli chiedevo del Petrarca. Il signor Corsaro incominciava. Si fermava. Andava verso il letto. Si coricava. Piangeva. E taceva a lungo. Io mi godevo la pace sentendomi un po’ “cattivo”.
di Riccardo Taverna – a cura di Antonio Giannetti