La storia che voglio raccontarvi parla d’amore, amicizia e coraggio; è una storia semplice che mi ha accompagnato per tutta la vita e che mi ha visto protagonista.
Mi chiamo Davide Vinciguerra ed ero un giornalista, un giornalista sul campo di battaglia. Lavoravo per il “Il Giornale” a Roma. Era il 1942; erano gli anni duri della guerra dove, gli unici colori che si potevano vedere sul volto e sugli abiti delle persone, erano il il nero, il grigio ed il marrone. Erano gli anni dei bombardamenti, delle reclusioni nei ghetti, della violenza e dei campi di concentramento.
Io ero Italiano e la mia famiglia viveva al sicuro in un piccolo appartamento di un condominio al centro di Roma. Avevo 24 anni e già lavoravo! Ricordo la piccola redazione de “Il Giornale” nei pressi di Piazza di Spagna e ricordo la mia scrivania dove, dalle 8 del mattino alle 17 della sera, passavo le mie giornate scrivendo articoli di cronaca su fatterelli di poco conto che si verificano quotidianamente nella mia città: dovevamo distogliere l’attenzione delle persone dal caos che la guerra stava provocando. Suonavo la chitarra e amavo cantare: in questo modo facevo felice anche la mia sorellina più piccola, Elena, che si addormentava solo dopo aver ascoltato qualche mio arpeggio.
In famiglia eravamo in nove: mia madre Teresa, il babbo Antonio, mio zio Giuseppe, la nonna Concetta, mio fratello maggiore Giovanni, il minore Federico, mia sorella Ludovica, la più piccolina Elena ed io. Giovanni e Federico erano già partiti per il servizio militare ed era arrivato anche per me il momento di arruolarmi.
Arrivato in caserma, mi assegnarono il compito di “Giornalista dell’esercito” e mi inviarono in un campo di soldati italiani che controllavano, giorno dopo giorno, gli spostamenti e gli agguati dei Tedeschi. Io ero incaricato di far pervenire ogni giorno alla sede centrale de “Il Giornale” a Roma, il numero delle battaglie, dei deceduti, dei sopravvissuti ed il riassunto delle attività giornaliere. Iniziai con entusiasmo il mio nuovo incarico ma, con il passare del tempo, mi resi conto di quanto era dura la vita al fronte. Scrivevo tutto ciò che accadeva come in un diario di viaggio ma ogni giorno tutto diventava più difficile e complicato perché ciò che vedevo era crudele, segno della disgregazione morale più totale.
Nel campo c’era una giovane ragazza, alta e bella con i capelli scuri ed i suoi bellissimi occhi verdi; aveva 17 anni ed era una Crocerossina. Non parlava molto spesso con i soldati, era sempre silenziosa e si dava da fare ogni giorno di più per alleviare le ferite di tutti quei poveri giovani che combattevano per la libertà e per la pace. Si chiamava Rossella e, al contrario di tutte le altre infermiere, indossava un vestitino azzurro con un grembiule bianco. Si diceva fosse arrivata al campo dopo essere scampata alle deportazioni degli Ebrei nel Nord Europa: la sua famiglia aveva nascosto una coppia di Ebrei nella sua casa in Sicilia. La guardavo spesso cercando di capire a cosa pensasse e cosa la tormentasse. Più tardi venni a sapere che la sua famiglia era stata sterminata in un campo di concentramento in Germania.
Una notte arrivarono al campo sette soldati; la loro uniforme era diversa dalla nostra; parlavano italiano ma il loro accento era straniero: erano Tedeschi ed avevano disertato poiché, dopo essersi resi conto che le leggi razziali non avevano senso, erano stati imprigionati, torturati e condannati a morte. Quando li vedemmo, pensammo subito ad un’imboscata; impugnammo le armi, gli puntammo i nostri fari contro e chiedemmo loro con una certa freddezza chi fossero e da dove venissero...
Dal silenzio assordante di quella notte, si levò una voce. Parlò un giovane uomo, Rikard, il loro portavoce, dicendoci che erano fuggiti dal loro campo perché avevano subito delle percosse atroci e, fortunatamente erano riusciti a fuggire prima di essere giustiziati. Erano, infatti, disarmati, stanchi e feriti. Gli accogliemmo al campo, non senza una certa diffidenza. Pensavamo fossero delle spie e mantenemmo le nostre precauzioni. Il Generale M. ed il Capitano L. interrogarono a lungo i sette fuggitivi per assicurarsi che non fossero venuti con lo scopo di attaccare dall’interno i nemici ma nel corso del tempo ci rendemmo conto che avevamo fatto bene a farli rimanere tra noi, nel nostro campo. Fu una notte molto lunga... Tuttavia, il Sottotenente Rikard aveva detto la verità e aveva espresso, a nome di tutti i suoi compagni, il desiderio di combattere al nostro fianco, richiesta che venne accettata qualche settimana più tardi.
Rikard ed i suoi compagni rimasero per molto tempo in infermeria: avevano delle ferite piuttosto gravi e dolorose.
Rossella andava da loro ogni giorno senza dare peso al fatto che quei soldati fossero tedeschi.
All’improvviso, qualcosa cambiò nel suo sguardo, il quale diventò sempre più malinconico! Era Dicembre,gli alberi erano spogli, faceva freddo ma i disertori tedeschi si erano ormai ripresi e ci aiutavano nei lavori più difficili. Inoltre, parlavano a lungo con il nostro generale fornendogli delle informazioni molto interessanti sulle armi usate dai nemici e sulle loro strategie d’attacco. Poi si unirono completamente a noi italiani, parlando, ridendo e scherzando con noi. Sembra impossibile... Eppure in quella tragedia umana l'amicizia trovava ancora un modo per sfuggire a tanta crudeltà.
In infermeria, ad esempio, c’era un giovane soldato, Mario, al quale doveva essere amputata una gamba. Tutti lo conoscevano e tutti gli volevano molto bene. Rossella lo amava come un fratello. Mario soffriva ma non passava un giorno in cui Rikard non andasse a trovarlo. Lo aiutò anche dopo il difficilissimo intervento e durante la riabilitazione. Un giorno però accadde una cosa impensabile, alla quale nessuno era abituato. Rossella, uscendo di corsa dall'infermeria, vedendo Rikard insieme ai soldati italiani e ai suoi compagni tedeschi, gli andò vicino e cominciò a gridargli contro ad accusarlo: piangeva, gridava. Poi si gettò a terra e, con il volto coperto di lacrime, disse: “Mario è morto! Ed è tutta colpa tua!”
Rikard non sapeva cosa dire! Io e gli altri soldati domandammo come fosse possibile una cosa del genere e Rossella disse in un mare di lacrime, riferendosi a Rikard: “ Gli aveva regalato la sua pistola!”
A quel punto,capimmo che si era ucciso. Rikard sollevò Rossella e guardandola negli occhi le disse: “ Ti prego, dimmi che non è vero!” e Rossella: “Voi! Voi tedeschi siete la causa di tutte le nostre sofferenze, del nostro dolore! Perché siete venuti in un campo italiano, vostro nemico? Perché? Voi dovevate soffrire come soffriamo noi ogni giorno, come ha sofferto Mario quando gli hai donato la tua pistola! Hai idea di cosa significava per lui afferrare l’oggetto che ha causato la sua sofferenza, che ha provocato l’amputazione della sua gamba? No, non lo sai! Non potevi saperlo, non l’avresti capito… perché tu non sei come noi!”
Rikard prese le mani di Rossella e, piangendo, le disse: “Portami da lui!”. Io li seguii con gli atri soldati. Rossella e Rikard passarono due giorni interi a sistemare la salma del giovane, a piangere, a pregare.
Dopo i funerali, Rikard andò nel bosco vicino al nostro campo, esponendosi al pericolo dei bombardamenti e degli agguati. Voleva morire, voleva mettere fine a tutte le soffernze, voleva riscattare la vita di Mario con la sua. Si fermò sotto un pino e, immobile guardava l’orizzonte. D’un tratto sentì dietro di lui dei passi, strinse in una mano la pistola, si alzò di scatto e, girandosi, vide Rossella che lo aveva seguito. Immobile, la giovane infermiera lo guardava con i suoi grandi occhi verdi; tremava come una foglia. Rikard abbassò la pistola e si girò. Si sedette a terra e, con la testa fra le mani, piangeva. Rossella, senza dire una parola, si sedette accanto a lui e lo abbracciò accarezzandogli la testa: avrebbe voluto chiedergli scusa per tutto ciò che gli aveva detto, ma quell’abbraccio valeva più di mille parole. I due rimasero abbracciati a lungo e, ritornando al campo, li vidi parlare e ridere. Ero contento e, allo stesso tempo, invidioso di Rikard che era riuscito a strappare un sorriso a Rossella.
Passò tutto l’inverno; Rossela e Rikard erano sempre più uniti e girava voce che i due si fossero addirittura fidanzati e che volessero sposarsi al più presto. Infatti, una mattina di primavera, li sorpresiabbracciati vicino l’entrata dell’infermeria: la sorpresa fu enorme e i due si accorsero di me, mi guardarono... Rossella era raggiante: sorrideva, parlava con tutti, anche con me che, fino ad allora l’avevo solo guardata, ogni volta che ne avevo la possibilità, da qualche angolo del campo.
Una mattina di Maggio, accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato: Rossella venne da me, nel piccolo studio che avevo sistemato nel mio camerone; mi aveva portato di persona le lenzuola e le coperte pulite; mi aveva parlato e, non so come, sapeva il mio nome. Sentivo il mio cuore: batteva troppo forte... La fissavo e non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo volto. Sapevo che qualcosa sarebbe successo. Dopo avermi salutato con un “Buona giornata!” tornò indietro, venne da me e si sedette sulla sedia di fronte alla mia scrivania. La fissai e, dopo un po,’ mi disse, con uno sguardo più confuso che mai, che si fidava di me, e che sapeva che avrei saputo mantenere un segreto che di lì a poco mi avrebbe confessato! Rimasi in attesa e, dopo un interminabile respiro mi disse: “Sono incinta!”
Mi alzai in piedi e le voltai le spalle, confuso, spaventato; non sapevo se provare rabbia, stupore, felicità… Sapevo solo che mi stava confidando il più bel segreto che possa esistere. Mi girai, le sorrisi e, andando verso di lei, la abbracciai come fa un fratello con la propria sorella.
Poi continuò: “Devo andare via dal campo! Andrò in montagna con due mie compagne che mi aspettano e lì darò alla luce il mio bambino. Rikard non sa nullao ed è per questo motivo che ho bisogno di te! Dovrai venire da (a continua)
di Mariagiulia Filoso