RICORDI DELL’INFANZIA DIFFICILI

Ciascuno di noi ha un ricordo “quasi nitido” della propria infanzia, a partire dai 2 o 3 anni di età, ma non riesce a ricordare i suoi primi mesi di vita. Vi siete mai chiesti il perchè?

Cristina Alberini, ricercatrice della New York University, ha condotto degli studi su questa, chiamiamola così, totale cecità mnemonica. 

Ha raccontato i suoi esperimenti in occasione dell’annuale meeting dell’Ebri - l’istituzione di ricerca fondata da Rita Levi Montalcini - che si tiene ogni anno in suo onore all’Accademia dei Lincei. 

Vi premetto che gli studi della Alberini sono stati condotti su modelli animali e non sull’uomo per evidente semplicità sperimentale, ma sono stati molto bene accolti, per i motivi che vedremo, anche dalla comunità neuropsicologica.

La domanda sul problema dell‘amnesia infantile poggiava su due sostanziali possibilità alternative: non ricordiamo i nostri primi mesi di vita, perché il nostro cervello non è ancora organizzato completamente per fissare i primi ricordi oppure li fissa, come fa negli anni successivi, ma il sistema per riportarli fuori, non funziona bene? 

Provo a semplificare lo schema: i sistemi cellulari e molecolari che sono impiegati dalla memoria sono come un ascensore che trasporta libri in un deposito e li riporta in superficie, seguendo i nostri richiami mentali (il fatto che con l’avanzare dell’età questi richiami siano meno efficienti è un altro problema che, purtroppo, affligge tutti e si manifesta in modo drammatico nell’Alzheimer). 

Il problema relativo all’amnesia infantile è quindi il seguente: nei primi mesi di vita il sistema della memoria non funziona bene e disperde i libri nel trasportarli oppure funziona, ma è inattivo e richiede una “scossa” per trasportarli nuovamente in superficie della nostra coscienza? 

Come ho accennato, queste domande sono state poste con esperimenti effettuati sui ratti e, naturalmente, sono necessarie tutte le dovute precauzioni prima di estendere i risultati all’uomo e trarne, magari, facili conclusioni, considerando che spesso animali e uomo possono fornire risposte considerevolmente differenti. 

La premessa è d’obbligo, ma è anche d’obbligo ricordare che tutte le medicine sono testate su animali come topi e ratti prima di usarle sull’uomo, il quale dovrebbe ogni tanto ringraziarli (magari prima di accusarli di rovistare affamati tra i formaggi della cucina). 

La conclusione di base è che i piccoli ratti di soli 17 giorni, confrontati con quelli di controllo poco più vecchi (24 giorni), di solito dimostrano di non essere capaci di rievocare le loro prime esperienze (denominate di tipo episodico), ma lo fanno se vengono sottoposti anche ad una singola e debole stimolazione elettrica, la quale riattiva evidentemente l’ascensore dei libri. 

L’eleganza e la semplicità di questi esperimenti ed il loro valore aggiunto sta nel fatto che questi test premettono di identificare nell’ippocampo la parte più direttamente coinvolta (e questo già in larga parte si sapeva) in molti tipi di memorie. 

Ma la novità importante - e molto interessante a livello molecolare - è che questo sistema di rievocazione poggia su due cosiddetti “interruttori molecolari”. 

Perché questi studi hanno suscitato il forte interesse di neuro-VVpsicologi, psicoanalisti e di coloro che si occupano della nostra “psiche”? 

Perché ci ricordano che già Freud aveva ipotizzato che il nostro cervello è un potente ed efficace deposito di libri menmonici, nascosti ma spesso inaccessibili nell’inconscio.

Ma anche i neuro-biologi molecolari dovrebbero essere oggetto di qualche ringraziamento per aver dato sostanza chimica a quelle che, altrimenti, sarebbero rimaste ipotesi contestabili da altrettante ipotesi diverse o contrarie. 

Inoltre, sia gli psicologi sia i neuro-biologi dovrebbero riconoscere che il divario disciplinare che li ha visti talvolta contrapposti si sta progressivamente annullando, contribuendo alla ovvia conclusione che mente e cervello sono denominazioni differenti dello stesso organo. 

a cura di Angela Maria Pirozzi