di Angela Ciano
L’Aquila Città Murata: come nasce questo modo di indicare la città e perché era così importante la sua cinta muraria con le numerose porte”
La cinta muraria completa di porte e torri costituisce, nella generalità dei casi e certamente all’Aquila, il dato principale tra quelli che concorrono, definendone i contorni, a delineare la forma urbana, la fisionomia, il volto di una città storica, luogo sicuro per vivere e per commerciare, struttura difensiva ed urbanistica che nel medioevo e fino praticamente al ‘700 disegna, come si esprime Maria Rita Acone, e comunica ancor oggi il tipo di organizzazione e il modo di abitare della comunità.
All’Aquila le Mura si può dire abbiano conservato la loro funzione fino alla prima metà del ‘900. Non quella difensiva, ovviamente, ma la funzione fiscale. Fino agli anni Trenta del secolo scorso, infatti, ogni porta fungeva da presidio daziario per l’entrata delle merci; perciò caduta la notte si chiudevano tutte le porte - i giovani che facevano tardi, si racconta, dovevano compiere acrobazie nei punti più bassi della cinta per rientrare! - e al mattino si riaprivano per detta funzione. La cinta muraria recuperata ridarebbe identità all’Aquila storica come monumento unico, giusta la visione del 1579 a volo d’uccello del Gonfalone civico del Cardone, o quella di Scipione Antonelli del 1594, nella sua edilizia monumentale religiosa e civile giustamente nota, ma anche nella meno nota edilizia minore connettiva e, per lo più sconosciuta perché in degrado, nella sua edilizia difensiva. L’Aquila antica dentro le Mura emergenti dal verde anello del pomerio si solleverebbe sul colle quasi una Bergamo Alta, con la sua massa abitativa «in se compacta tota», sopra la caotica urbanistica di post anni Sessanta del ‘900.
Purtroppo, ha scritto il D’Antonio nel 2011 in un testo presentato da studiosi aquilani ai principali responsabili della ricostruzione, la cinta muraria in parola, «splendidamente conservata fino a tempi recenti, è stata oggetto di una sistematica opera di devastazione, quasi a volerla cancellare del tutto. La si è resa di fatto inaccessibile per gran parte del suo sviluppo; case private si sono addossate ad essa senza alcun tipo di rispetto; le porte sono state quasi tutte chiuse e gli interventi della Soprintendenza di recupero e ripristino sono stati in parte vanificati da atti vandalici deturpanti». Non si dovrà assolutamente mancare l’opportunità unica, che il sisma ha paradossalmente offerto, per rimediare alle scelte urbanistiche sbagliate fatte nel XIX-XX secolo e che fecero perdere quella che era la struttura antica della città. Per rifare oggi, dell’Aquila antica, una delle realtà urbiche più compiute e pregevoli del Centro Italia.
Oggi questa storia come può aiutarci a ritessere l’assetto urbanistico di una città lacerata dal sisma del 2009”
Il recupero della cinta muraria, che il sottoscritto ed altri studiosi aquilani andiamo sollecitando, lungo tutto il suo percorso obbligherebbe necessariamente anche a correggere molta dell’edilizia deturpante con la quale nel ’900 l’urbanizzazione è arrivata ad aggredire la città antica specialmente, appunto, lungo il circuito difensivo quasi volesse eliminarlo come “elemento di ostacolo al proprio sviluppo” invece che come “importante risorsa per il proprio futuro”, e chiudendo alla vista panoramica gran parte del profilo antico.
Dovrebbero scomparire quindi, o essere ridimensionate volumetricamente, gli alti anonimi caseggiati moderni che si è permesso aggredissero il menzionato circuito murario difensivo e deturpassero in parte lo stesso tessuto abitativo storico intra, provvedendo a non ricostruirli o a decurtarli (anche in vista di facile evacuazione in caso di altri sismi), estendendo gradualmente, appena si potrà, il criterio che si va applicando per alcuni caseggiati i quali, dovendosi demolire per i danni subiti e trovandosi dentro le Mura o in zona di rispetto, lodevolmente si sta deliberando di ricostruirli, ivi stesso o nei pressi, ma ridimensionati in cubatura, idealmente fino all’altezza delle classiche 5 canne - quelle stabilite, anche come criterio anti-sismico, nel privilegio di fondazione della città del 1254.
Scelta programmatica, quest’ultima, ovviamente la più ardua, il punto più delicato e difficile del modello di ricostruzione del «dov’era ma meglio di com’era» proposto da me e da altri studiosi aquilani. La proposta appare di certo utopistica, ma a ben vedere perderebbe il suo carattere provocatorio, diventando proposta praticabile: la conforta il fatto che anche il maggior scrittore di architettura, di pianificazione urbana e storia della città del XX secolo in Italia, Leonardo Benevolo, nel 1977 aveva auspicato analoghi interventi per lo stesso centro storico di Roma.
In particolare, vista la situazione odierna della città, cosa può essere recuperato dell’antica cinta muraria e come questo recupero potrebbe migliorare il volto e le funzioni della città futura...quella che si spera verrà presto ricostruita”
Il modello di ricostruzione dell’Aquila «dov’era ma meglio di com’era» proposto, comporta evidentemente costi maggiori e tempi di ricostruzione più lunghi. Ma occorre inquadrare l’operazione in un preciso e più ampio contesto. Credo occorra prendere di coscienza collettiva di un problema di fondo. Tali costi aggiuntivi debbono essere visti non funzionali a mere esigenze estetiche o ad uno sfizio archeologico di studiosi, ma come un investimento: la conditio sine qua non, anzi, della stessa ripresa economica della città e del futuro sviluppo del territorio. Un futuro economico ed occupazionale che ci tragga fuori dalla recessione in cui versa l’Abruzzo montano e l’Aquilano in specie.
Orbene è da almeno mezzo secolo che da parte di esperti si è ripetuto a tutti i livelli e in tutti i fori, istituzionali, politici, culturali, che la sola fondamentale ricchezza del nostro territorio è la vocazione turistica, grazie alle sue bellezze naturali, al suo peculiare, ingente patrimonio monumentale, e alla valenza culturale della città. Noi possiamo vivere soprattutto di turismo. Mai però, di fatto, si è manifestata volontà politica concreta a tradurre gli studi in programmi operativi inducendo gli investimenti in tal senso, e mai L’Aquila è stata seriamente considerata quale potenziale città turistica verso la quale incanalare gli interessi degli operatori economici. Nel corso dei decenni in loco si sono impostate realtà economiche come il polo elettronico e quello universitario: realtà solide ma, come poi dimostrato dal polo elettronico, contingenti e delocalizzabili. Dovrebbe dunque accettarsi l’idea che in un Abruzzo montano da riconvertire nella sua economia di base - la pastorizia e lo zafferano - l’unica industria ‘strutturale’ è appunto l’industria turistica, la sola organica alle locali naturali potenzialità, che copre non solamente la città ma anche il territorio, non è suscettibile di delocalizzazione e tra l’altro è ecologicamente sicura.
Un’industria, beninteso, integrata da industrie complementari, ed essa stessa declinata in molteplici aree di sviluppo - il turismo culturale per investire nello straordinario patrimonio architettonico-artistico del centro storico cittadino e dei borghi antichi, nella tradizione musicale, cinematografica e teatrale di qualità, nell’Università, in tradizioni ed eventi unici quali la Perdonanza celestiniana del 28- 29 agosto, nell’artigianato; il turismo naturalistico di montagna, da valere per tutte le stagioni; il turismo enogastronomico, e via dicendo. Tale industria così declinata, fatta propria dalla politica e supportata da una Legge speciale per L’Aquila finalmente varata dal governo, potrà cominciare ad esser valorizzata e sviluppata come lo è in altre note zone turistiche italiane di montagna e come fino ad ora da noi non è stato. Divenendo in tal modo la fonte di un indotto importante per l’occupazione, il vero volano della ripresa economica dell’intero Abruzzo interno.
E l’imperativo turistico divenendo il criterio normativo di base tanto per il recupero, il trattamento e la promozione dell’esistente patrimonio architettonico-artistico della città e dei borghi, quanto per l’adeguamento ad esso criterio, rigorosamente, di ogni successiva pianificazione paesaggistica, urbanistica, infrastrutturale ed economica del territorio, e di ogni eventuale intervento nell’edilizia e nell’habitat in termini di cubatura, forme, materiali, colore. Il recupero della cinta muraria dell’Aquila sarebbe il primo importante passo in questa direzione.
Spesso anche prima del sisma si è aperto il dibattito per il recupero delle mura della città rendendole fruibili con percorsi pedonali, con parchi gioco per i bimbi, un po’ sul modello Lucca: è una cosa fattibile per L’Aquila”
L’esempio di Lucca, città di pianura e con una cinta muraria cinquecentesca costruita secondo i principi della fortificazione alla moderna, non è trasponibile tal quale al caso dell’Aquila; ma come idea ispirativa sì. Come già espresso da altri autori, percorsi pedonali e spazi verdi organizzati almeno in alcuni tratti (quello da Porta Barete ripristinata fino a Porta Rivera e Porta Roiana, l’altro da Porta Napoli a Porta Tiona e Porta Bazzano, la Porta Leoni messa a vista fin giù a Via Strinella mediante una scalea monumentale, il tratto dal castello e San Basilio fino a Porta Branconia e di nuovo a Porta Barete), e un ‘Passetto delle Mura’ realizzato grazie ai camminamenti esterni di ronda riapplicati allo scopo, potrebbero fare delle Mura il filo conduttore per un parco diffuso, ideale come luogo paesaggistico, che propizierebbe la riappropriazione e fruizione di questo elemento architettonico e degli spazi attigui non solo alla vita cittadina ma anche ai flussi turistici.
Quasi tutte le porte cittadine che noi conosciamo sono state o saranno a breve restaurate e restituite alla collettività c’è anche il progetto, che trova come sponsor principale la Fondazione Carispaq, di riaprire al percorso pedonale Porta Branconio, possono servire secondo lei questi interventi spot o bisognerebbe pensare ad un progetto complessivo che ridia organicità al complesso sistema difensivo della città medievale”
Si dovrebbe trattare senz’altro di un progetto complessivo, da contestualizzare nel quadro di sviluppo economico sopra delineato basato sull’industria turistica. Indubbiamente il “la” sarebbe dato dal recupero di Porta Barete. Ne ho fatto fare un rilievo da Duilio Miocchi. Si tratta di un fronte bastionato di ben 45 metri e mezzo, comprese torri angolari e fornice ogivale, che nel 1423 Braccio da Montone tentò invano di forzare. Essa, com’è noto, era la principale della città ma purtroppo, segnala anche, nel citato testo, il D’Antonio, «con il complesso di mura circostanti, fra cui una torre angolare, è stata oggetto di sventramento con la sistemazione ottocentesca di via Roma (cavalcavia) e di via XX Settembre, in una logica di apertura della città verso l’esterno, e di un successivo consistente rinterro sopra il quale si era costruito nel Novecento un gruppo di edifici».
Si sa che nel 1823 si era iniziata la costruzione di una nuova monumentale Porta a due torrioni circolari bugnati, su disegno di Giovanni Oberti e stilisticamente neo-classica, da impostare dove ora è il cavalcavia, mentre all’interno, con altro prospetto a colonne doriche, si sarebbe realizzata una piazza ad esedra a due ali semicircolari porticate. Ma già nel 1826 la pianta del Catalani testifica il diverso progetto poi realizzato: un accesso alla città più regolare, diretto e comodo, ma sopraelevando via Roma, quindi sventrando l’antemurale col rinterro del torrione sud e chiudendo poi la murata rialzata con la ‘barriera’ che si vede in vecchie foto. «L’operazione di cancellazione della porta medievale principale della città – prosegue il documento D’Antonio – è un episodio non certo frequente nella più generale storia dell’urbanistica, e denota ormai persa la sensibilità per la propria storia e i propri monumenti dovuta a particolari contingenti ragioni storiche».
In tale prospettiva la rampa ottocentesca di rinterro in questione, che iniziando a salire fin dal bivio per via della Croce Rossa e puntando verso San Paolo di Barete ha sommerso, oltre la Porta, anche la bella fiancata della chiesa settecentesca di Santa Croce, dovrebbe essere letteralmente rimossa a raso terra fin dal suo inizio, e la Porta finalmente ripristinata come merita. Il che, si noti, non apporterebbe disagi al traffico, posto che già l’apertura, nel secondo Ottocento, di Via XX Settembre, che permise un accesso avvolgente alla città ancor più comodo, aveva in pratica svuotato d’importanza la via Roma come accesso alla città – rendendo così superfluo lo sfregio da poco eseguito allo storico bastione; ma ormai era stato perpetrato! Io immaginerei una immensa Piazza dell’Esedra, delimitata da un emiciclo di grandi caseggiati a portici – pregiata edilizia sostitutiva, questa, per ospitare i centri commerciali e le residenze private che ora insistono nell’area – realizzata, a somiglianza di quella romana davanti alle Terme di Diocleziano, non dentro la Porta come nel citato progetto del 1823 ma fuori, proprio davanti al tratto di Cinta Muraria, dalla quale aggetterebbe di nuovo, a piena suggestiva vista, la storica Porta Barete disinterrata e recuperata nel potente antemurale come sopra descritto.