NON SOLO ANTOLOGIA

ENKERSMANL  E IL PRANZO DEL BOIA (sulla giustizia)

E’ in sostanza un pranzo, un lauto pranzo, che si offriva ( e si offre ancora oggi al condannato a morte, nella convinzione, meglio nella speranza, nel tentativo, di calmarlo, di smorzarne il rancore, di eliminare i suoi pensieri di vendetta, ed ancora: nella speranza di carpirne il consenso, o l’apparenza di un consenso. Forse meglio, e con più aderenza alla realtà, lo scopo era quello, ingenuamente ritenuto, di alleviare la morte del delinquente. E’ un costume, una consuetudine giuridica germanica, che si fa risalire al 14^ secolo. E’ usanza maturata nelle grandi città dell’Impero e nelle città episcopali: Francoforte, Strasburgo, Norimberga. E’ comunque una usanza già in vigore prima del 14^ secolo. Ed è una usanza ancora in vigore negli stati americani ove è prevista la pena di morte. Occorre tener presente che “il banchetto del boia” è istituto che va oltre il pasto e la libagione. Per esempio, veniva esaudito il desiderio del condannato a morte di passare l’ultima notte con una donna. L’usanza in parola  era già in vigore nella antichità, come e’ dato rilevare da un passo del “Fedone” di Platone. A chi dice a Socrate che è ormai giunta l’ora di bere il veleno, Platone ribatte: “ Ma io credo, o Socrate, che il sole sia tuttora sui monti e non sia ancora tramontato. E io so di altri che hanno bevuto il veleno assai più tardi e cenato e bevuto, dopo avere dato l’annunzio, e alcuni preso prima piacere con chi desiderassero”.

ENZO PIROZZI

“Se c’è una istituzione legata con nodi indissolubili alla società, in modo che nessuno dei consociati possa dirsi ad essa estranea, questa è la “giustizia”. Indossare una toga non è necessario e neppure sufficiente per servirla, perche’ la giustizia, prima di essere ogni altra cosa è “categoria dello spirito e regola di vita per ciascuno di noi. Essa è presente ovunque: ogni uomo, venendo in rapporto con altri uomini, è chiamato a moderare il proprio egoismo nel rispetto della vita e della dignità altrui. E ciò che si richiede a chi è chiamato a giudicare non altro è se non le antiche virtù che, da sempre, sono

connaturate ad una così ardua funzione. Vale a dire: l’indipendenza, la imparzialità, ma prima di tutto “l’umiltà”, senza la quale la giustizia dell’uomo non è più umana e, forse, non è neanche giustizia. Ciò vuol dire che la fermezza nell’adempimento del proprio dovere non va mai disgiunta dalla misura di chi, ogni giorno, deve farsi perdonare la superbia di avere scelto un mestiere che, contravvenendo all’evangelico “non iudicare”, lo fa giudice dei propri simili. Ciò vuol dire che ogni indagine giudiziaria va condotta col più scrupoloso riguardo per i diritti delle parti e per chi, come avvocato, li difende nell’esercizio del suo indefettibile ministero. Ciò vuol dire che l’autorità riconosciuta alla funzione à trasferibile alla persona del giudice se e quanto egli sarà riuscito ad accreditarla nella stima altrui, in una diuturna conquista, che non è mai definitivo appannaggio. Ciò vuol dire che l’uso legittimo del “potere” – parola così carica di ambigui sottintesi - esclude l’arroganza del padrone, perchè il potere è sempre e soltanto “servizio”, mai diritto. E’ questo l’atteggiamento mentale di chi sente, nel momento del giudizio, la “pietas” dei latini, la “caritas” dl cristiano, la “lealta’” del laico, la “coscienza democratica” del “cives” (cittadino). Tante varianti lessicali per esprimere un concetto solo, che è il sentimento di autentico rispetto per il prossimo cioè il sapere sempre scorgere nel proprpio simile, aldilà delle differenze di rango e di censo, la sostanza umana che lo fa uguale a noi. Solo allora, amico o no che sia il volto del giudicabile, il giudice potrà maturare la propria sentenza ed emetterla con animo sereno: tanto lontano dalla cedevole indulgenza, quanto dalla tronfia alterigia.”

“Perchè ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalla legge.” (Cesare Beccaria – “Dei delitti e delle pene”). “Il mestiere del giudice, quando non è “filosofia”, è burocrazia, ragioneria applicata alla vendetta.”

di Enzo Pirozzi 

A cura di Angela Maria Pirozzi ©