QUANDO UN OROLOGIO TI ALLUNGA LA VITA

Gino Lucatello è sopravvissuto ai lager nazisti e, oggi, spegne 105 candeline.

A volte una cosa insignificante può modificare il destino di una persona; lo sa bene il signor Gino Lucatello che deve la sua vita a un orologio. 

Il passare del tempo, a casa di Gino Lucatello, che ha appena compiuto 105 anni, scorre sui quadranti dei tanti orologi: a pendolo, a cucù, da parete, da taschino. Il ticchettio invade le stanze. «Ormai sono sordo, non lo sento più». Ha sempre il sorriso, come ogni giorno la cravatta è abbinata al gilet. Trascorrerà la festa coi figli e con una passeggiata alla Tesoriera con la «sorellina»: Reginetta, 100 anni. 

Ma gli orologi, che aggiustava nel tempo libero quando tornava a casa dal lavoro da fuochista in Comune, o alla domenica al Balon, sono più di una passione. Se oggi è qui è grazie a un orologio. Uno da donna. 

Era il 1945, campo di lavoro di Kiel. Gino venne deportato il 9 settembre, dopo l’armistizio, mentre era di scorta a un treno durante il servizio militare. Nel lager c’era un mercato di contrabbando. Lui riparava orologi e faceva anelli: «Li scambiavamo con pane e sigarette». Un kapò gli si avvicinò: «Uhr, uhr!», disse, «orologio». Quel kapò aiutava i prigionieri («Diceva che era contro Hitler») e voleva regalare l’orologio a una donna. «L’ingranaggio era piccolissimo, per cercare i ricambi mi fecero uscire dal campo. Scortato da un militare, girammo tra le macerie della città di Kiel. Fu inutile. Alla fine riuscii a saldarlo, lavorando la notte, al buio perché gli aerei bombardavano dove c’erano luci. L’orologio ripartì». 

Tre mesi dopo, la guerra è persa, i tedeschi caricano sui camion i prigionieri. «Il kapò disse “Lui no, lui spezialist”, e mi strizzò l’occhio». Essere specializzato faceva la differenza tra vivere e morire. Gino era già stato salvato una volta: dal patentino da motorista. «Se non avessi saputo montare i motori sarei stato fregato. Chi aveva un mestiere: da una parte; gli altri: buttati via». 

Doveva montare motori di sommergibili e posamine. «Buttammo in mare tre pistoni». I sabotaggi potevano costargli la vita. «Per fortuna, arrivò un bombardamento – ride – il posamine era su un fianco: da buttare». Una fibra forte, Gino. Resiste alle botte, al freddo. Il compagno di prigionia, Noto, sopravvive, torna a Torino. Ma è debole, muore poco dopo. Ricordi cristallini: il «cenone» di Natale con le molliche risparmiate dalle razioni. «Dividemmo il cibo con un tizio che non aveva tenuto nulla, e piangeva». In baracca un prigioniero – il prete non c’era – disse una specie di Messa. C’era un nazista che rideva durante le torture. Alla fine della guerra «le squadracce cercavano i capi balordi per vendicarsi. «C’era uno che aveva tentato di uccidermi, dissi di lasciar perdere, discutendo si perse tempo e lui riuscì a scappare e mettersi in salvo. Fu un sollievo». 

Quante storie, in 105 anni. Nato a Treviso, esule della Grande Guerra. Strinse la mano al general Cadorna, che volle incontrare chi, come Gino, perse il papà al fronte. Anche le macchine fotografiche e il cinema sono state una sua passione, trasmessa dallo zio, fotografo di casa reale. Aiutò Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo del Cinema: «Le procurai macchine di legno, i primi proiettori, lei mi portò nel magazzino sotto la Mole». Altri frammenti: i cavalli in via Roma, il suo quartiere, Parella, che era aperta campagna, quando col grammofono si ballava il valzer. Accenna passi di danza. Poi torna al presente, il telefono squilla per gli auguri. «Non avrei mai creduto di arrivare a 105 anni. Il segreto? Non arrabbiarsi mai, non avere cattivi pensieri o invidie». 

a cura di Antonio Giannetti